TERAMO – Si chiama Giuseppe Lalli, è un abruzzese di Vasto. Ha 51 anni e lavora a Pescara, è sovrintendente capo di Polizia, addetto al servizio sanitario. E’ tornato a casa da poche ore. Il 25 aprile scorso, la mattina, era in Nepal, a Kathmandu, per realizzare il sogno di un’escursione sull’Everest. Il destino gli riservava però l’esperienza tremenda del terremoto che ha devastato il Paese con quasi novemila morti. Giuseppe Lalli la mattina del 25 aprile era con il fratello, monsignor Mauro Lalli, della Segreteria di Stato del Vaticano, addetto all’ambasciata della Santa Sede di Delhi, da cui dipende anche il Nepal. Erano in un orfanotrofio a Kathmandu, con 30 bambini dai 7 ai 16 anni, quando la prima scossa di terremoto ha devastato la struttura. Nel giro di pochi minuti bambini, operatori e ospiti si sono ritrovati in giardino, tutti vivi, senza più niente, ma tutti vivi. Le scosse si susseguivano mentre Mauro Lalli, in contatto stretto con la Santa Sede, lavorava già al coordinamento degli aiuti, alle prime mosse della Caritas, all’arrivo della Croce Rossa. E Giuseppe approntava con gli operatori dell’orfanotrofio e con i bambini un campo improvvisato, spiegando ai più grandi che cosa stesse accadendo e cosa fare, raccontando ai più piccoli, con tutta la forza del linguaggio universale del bisogno, che si preparavano a un gioco. Poi, trascorsa la prima, tremenda notte, anche per Giuseppe è venuto il momento di guardare da vicino il dramma vero. E’ così che attraversando le macerie della città si è avventurato dove voleva e doveva (è poliziotto, un sanitario e un volontario della Croce Rossa) e con alcuni compagni è uscito da Kathmandu, verso i villaggi che la circondano. “Passavamo sulle macerie – racconta – non, tra le macerie, ma sulle macerie. A un certo punto, all’ingresso di un villaggio un uomo ci è corso incontro, agitato, e chiedeva, chiedeva… e io non capivo ma sapevo che la sua disperazione andava oltre quello che vedevo. Quell’uomo ci chiedeva aiuto per cercare sotto i detriti su cui camminavamo, perché tutta la sua famiglia era lì sotto. Lì, sotto i miei piedi. In Nepal camminavamo sui morti, in alcuni casi sulle persone ancora vive e che stavano morendo”. E per otto giorni, la vita di Giuseppe, è stata questa. Aiuti, soccorsi, distribuzione di primi aiuti, preparazione di cartelli in cui si raccomandava alla popolazione di essere pronta a fuggire in qualsiasi momento da qualsiasi posto. “Gli spiegavamo come fare, cosa non dovevano fare e li indirizzavamo ai punti di raccolta che intanto venivano approntati. Abbiamo distribuito un minimo d’acqua, una piccola ciotola di riso a donne, uomini e bambini sempre grati. Abbiamo aiutato persone che non ci hanno chiesto niente e che ci ringraziavano per tutto e che, soprattutto, erano attive, serene, mai rassegnate, pronte a collaborare su tutto”. La sera, per i primi tre giorni, Giuseppe tornava nel giardino dell’orfanotrofio, con “i miei bambini”, dice lui. Poi l’impegno degli aiuti lo ha costretto a visite in quel giardino sempre più brevi, finchè un giorno, quasi per forza, è stato costretto a ripartire, a proseguire il proprio viaggio. E’ rientrato l’altro ieri, con una cartolina che ha trovato a Kathmandu: è una fotografia dell’Everest che non ha nemmeno visto e men che meno scalato. E’ un poliziotto, Giuseppe Lalli, è schivo, ha orrore della retorica. Ma dice: “Ho nel cuore i miei bambini, quel po’ di riso, quelle gocce d’acqua, quella devastazione. Non ho bisogno di ricordare altro”.
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